Broad Band Business Forum 2007

Premessa: vorrei dare il benvenuto a Luca, che con questo post lucidissimo sui temi discussi al recente BBF2007 inaugura la sua partecipazione a questo blog come autore.
Eugenio

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I due giorni del forum romano sulla [tag]banda larga[/tag] e gli scenari futuri e futuribili della comunicazione sono stati per molti l’indicazione – forse già scontata – di un Italia che anche in questo procede a due velocità, se non a tre o a quattro.

Da un lato il dibattito di chi le regole le ha sempre fatte perché investito di un potere politico o economico, dall’altro chi coraggiosamente prova a cambiarle, vuoi sperimentando nuovi modi di utilizzo della tecnologia, vuoi promuovendo dibattiti e progetti innovativi per la diffusione e la fruizione dei nuovi media (Digital Media in Italia).

Ma i due mondi non sono più, come spesso in passato, scarsamente permeabili l’uno all’altro. Molti segnali vanno ormai verso una reciproca comprensione, a cominciare dal dibattito sulle infrastrutture di rete, uno scambio che per quanto tardivo resta comunque fondamentale: si tratta delle due questioni che più stanno a cuore ad operatori e fruitori della rete, la regolamentazione degli accessi WiMax e lo scorporo della rete Telecom Italia.

Sulla prima i giochi sembrano ormai fatti, anche se molti operatori hanno espresso i loro dubbi sulla possibilità che ci sia un orientamento verso lo standard 802.16d, piuttosto che verso il più recente 802.16e.
Il dubbio nasce dalla disponibilità di apparati che supportano il nuovo standard e quindi dagli investimenti già fatti da produttori e operatori di rete in questa direzione.

Sul secondo punto l’unica cosa certa è che fintanto che l’assetto proprietario di Telecom Italia e soprattutto il suo piano industriale non saranno ben definiti, né gli altri operatori né l’Agcom né il governo sembrano intenzionati a muoversi.

E’ comprensibile anche in virtù del fatto che il dibattito su quale sia il modello giusto per lo scorporo registra pareri discordi non solo nel nostro paese ma anche nel resto d’europa.

Personalmente, qualunque sia la forma societaria, sposo in pieno l’idea della One-Network, con investimenti condivisi dagli operatori ed accesso paritetico a fornitori di servizi e contenuti.
Una rete che non sia l’insieme di tanti recinti (walled gardens) scarsamente comunicanti, ma una superfice flat su cui far viaggiare i contenuti – anche tutelandoli sotto il profilo del diritto d’autore – ma senza barriere di tipo tecnologico o normativo.

D’altra parte una ‘buona’ copertura in fibra del territorio, come sottolineato da Schneider (ad Alcatel-Lucent) richiede un investimento di circa 13/14 Mld ed è impensabile che una singola impresa pianifichi un investimento del genere senza precise garanzie sulla bontà del business case.
Un punto rilevante sta proprio nella fattibilità degli investimenti: non esiste un business case unico per la banda larga nel nostro paese, ma piuttosto una differenziazione per zone, alcune ‘valide’ altre meno.

Scheneider parla di zone “business driven”, in cui gli investimenti si ripagherebbero con certezza, ma anche di zone “Risk driven e Policy driven”, in cui il rischio va affrontato “scavando una volta sola e mettendo in comune le spese”.

E’ un tema su cui va dato atto al Garante di aver avviato un tavolo di confronto aperto, come testimoniato dall’audizione tenutasi a Napoli pochi giorni fa, cui hanno partecipato tutti gli operatori di rete alternativi, per la prima volta in forma congiunta e con una proposta comune, un gruppo di imprese che esprime complessivamente circa 16 Mld di fatturato.

Emerge chiaramente il ruolo complementare e non sostitutivo del WiMax come modalità di accesso al backbone, laddove la fibra non sia applicabile per motivi geografici e/o economici.
Un ruolo che è quindi fondamentale (insieme a tecnologie di accesso non soggette a licenze e più granulari, quali il WiFi) per colmare una condizione di Digital Divide che vede nel nostro paese ancora 6 mln di persone ai margini delle autostrade digitali, se non completamente al di fuori.

E poi il tema dei contenuti, forse in fin dei conti il più interessante perché più vicino all’utilizzo della rete piuttosto che alla sua costruzione “fisica”.

Su questo la differenza di velocità tra il nostro paese e gli altri si avverte in modo stridente.

In un mondo dove i contenuti autoprodotti e la comunicazione Peer To Peer (cioè non mediata da una rete proprietaria) sono una realtà consolidata, dove il principio di Tv generalista e lineare viene fatto a pezzi dalle nuove generazioni di utenti, dove il marketing ha serie difficoltà ad individuare i gusti comuni dei ‘giovani’ perché si sono polverizzati e cambiano continuamente inseguendo il tam tam delle chat, assistiamo ancora ad una battaglia tra imprese medioevali per mantenere le sacche di profitto guadagnate con la fonia prima e gli sms poi.

Impedendo l’interoperabilità tra le piattaforme, cioè il diritto degli utenti a fruire di qualunque contenuto e quello degli autori ad offrirlo su tutte le reti e con tutte le modalità di accesso, i grandi operatori di telecomunicazione del nostro paese limitano un mercato nascente con potenziali di crescita altissimi.

Si tratta di pura cecità manageriale, poiché questi signori sono convinti di portare avanti business case in realtà morti e sepolti da tempo.

Illuminante in questo caso l’esempio di Skype, che dichiara ad oggi 220 milioni di clienti attivi (cioè non semplicemente registrati) ed il 4,4% delle telefonate business mondiali ‘skypizzate’ in nome di evidenti riduzioni di costo.
E tutto ciò passando favolosamente ‘al di sopra’ degli operatori Telco tradizionali (e forse in parte anche alle normative nazionali sulla legal interception), che di quel business intercettano poco o niente, se non magari i soldi delle tariffe flat di accesso alle reti.

In generale non vi è più la necessità di pagare per la chiamata, poiché il servizio di comunicazione è ormai qualcosa di più ampio, che vede nella voce solo una delle possibili opzioni, uno dei tanti servizi veicolabili dalla rete.

Da qui il dubbio: cosa mi offre in più l’operatore che non posso avere da una semplice connessione a banda larga ?
Ed infatti molte delle comunicazioni personali ma anche di lavoro si sono spostate su Messenger e Google Talk per la messagistica, su Fring per il mobile …ed ovviamente su Skype.

D’altra parte sono stati proprio loro, i decisori del marketing e dei bilanci delle comunicazioni, a tariffare anni fa i dati rispetto alla voce, quando ancora i primi sembravano una briciola da smanettoni ed i secondi l’unica forma di comunicazione possibile.

E’ così che gli operatori tradizionali si sono preparati il nodo della corda che li sta impiccando, prezzando i dati un ordine di grandezza sotto la fonia, senza immaginare che non sarebbe passato molto tempo prima di assistere al sorpasso dei primi sulla seconda
(cfr. Stefano Quintarelli, fondatore di Inet e fonte inesauribile e lucidissima di informazioni).

Ed ora provano a mantenere i profitti sostenendo che alla fine dei conti trasporto dei dati e fornitura dei contenuti siano la stessa cosa, la logica della “tribù” e dell’integrazione verticale tra rete e servizi.
La logica della non interoperabilità..

Fa scuola in questo senso la scelta del più grande operatore europeo, British Telecom, di cambiare pelle già alcuni anni fa, cedendo la divisione mobile e trasformandosi in un fornitore di servizi ICT, con offerte ‘verticali’ orientate alle imprese ed alle Pubbliche Amministrazioni, che vanno dalla Telemedicina al Team working alla Infomobility.

Un discorso che da noi per ora rimane nelle considerazioni di pochi illuminati, ed in qualche presentazione colorata, sempre in nome dei margini da medioevo, quelli sicuri ma sempre più risicati.

Le buone notizie da noi cominceranno quando al Broad Band Business Forum non si sentirà più parlare di rete, ma solo di contenuti.

Luca

[tags]network neutrality, wifi, wimax, bbf2007[/tags]

Un Demone Costruito da Noi

“Se non si può dire che io abbia causato le due grandi crisi finanziarie dello scorso secolo – il crollo del mercato azionario nel 1987 e la crisi degli hedge fund di gestione del capitale nel lungo periodo (LTCM), si può comunque dire che io ci sia andato vicino. Se Wall Street è la sala macchine dell’economia mondiale, io ero senz’altro uno di quelli che smanettavano con le manopole!”

Inizia così, con una introduzione “da brividi”, il libro di Richard Bookstaber, intitolato A Demon of Our Own Design. L’autore, uno dei matematici che hanno lavorato negli scorsi anni alla definizione (alla progettazione, direi) di [tag]strumenti finanziari[/tag] evoluti e dei programmi software per la loro gestione, racconta da un punto di vista molto particolare i rischi di un mercato finanziario reso forse meno volatile nella media, ma molto più soggetto a iperreattività rispetto a piccole e remote variazioni, a causa della complessità delle relazioni fra i diversi strumenti finanziari che vi si trattano.

L’economia della giungla

E’ concezione comune che una “economia di libero mercato”, ovvero quella in cui le transazioni e gli scambi sono gratuiti e consensuali, sia migliore e più accettabile della “legge della giungla”, che consente invece al più forte di “prendere” qualcosa dal più debole. Banale, vero?

Forse NO!

Di recente è stato pubblicato su Economic Journal un articolo (di Ariel Rubinstein e Michele Piccione), che sottolinea interessanti paralleli fra I due “sistemi”. Uno dei risultati interessanti è che l’economia della giungla è in grado di supportare un equilibrio “efficiente” (efficiente nel senso di Pareto), il che porta direttamente ed indirettamente, a due interessanti conclusioni:

la prima è che l’ottimo paretiano (il cui l’utilità della società è massima nel senso che nessuno può aumentare il proprio beneficio se non a discapito di altri) non è in fondo un’oasi morale così desiderabile.

La seconda è che il risultato garantito da un libero mercato è desiderabile solo tanto quanto lo sono le condizioni inziali che lo caratterizzano.

The relative comparison of the jungle and market mechanisms depends on our assessment of the characteristics with which agents enter the model. If the distribution of the initial holdings in the market reflects social values which we wish to promote, we might regard the market outcome as acceptable. However, if the initial wealth is allocated unfairly, dishonestly or arbitrarily, then we might not favour the market system. Similarly, if power is desireable we might accept the jungle system but if the distribution of power reflects brute force which threatens our lives we would clearly not be in favour.

[tags]economics, pareto[/tags]